Barbie con sindrome di Down: perché è vera inclusione

Perché la Barbie con sindrome di Down, lanciata dall'azienda Mattel, non è solo una trovata di marketing.

7' di lettura

Mattel, azienda leader in tutto il mondo di giocattoli, ha annunciato di voler lanciare la prima Barbie con sindrome di Down. Così, dopo la versione “curvy” e quella di Ken in sedia a rotelle, adesso verrà aggiunto un nuovo “modello” affinché la linea della bambola più famosa del mondo, con oltre sessant’anni di onorata carriera, possa essere sempre più inclusiva delle minoranze.

Peraltro Mattel non è nuova nel dimostrare una certa sensibilità, mostrandosi ben lontana dal “disability washing” al quale troppo spesso assistiamo in ambito marketing e che, per questo, ci ha purtroppo assuefatti alla diffidenza quando vediamo pubblicità che coinvolgono persone con disabilità o prodotti venduti specificatamente per loro.

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Bambina che gioca con il modello della Barbie con sindrome di Down. (Fonte della foto: sito dell’azienda Mattel).

In questo caso, infatti, nel progettare la bambola, il brand ha lavorato direttamente con l’associazione americana “National Down Syndrome Society”, rispettando il fondamentale detto “nothing about us without us”, che ricorda di coinvolgere i diretti interessati nei processi che li riguardano, affinché ci sia un ascolto empatico delle loro richieste.

Non tutti però hanno accolto positivamente questa notizia. Il commento sui social che più mi ha colpito in negativo (con oltre quattrocento like di approvazione) è stato decisamente questo: 

«Questa storia “dell’inclusione” vi sta un po’ sfuggendo di mano secondo me! E non ho nulla contro questi bambini super dolci e speciali prima che qualcuno cominci a blaterare cose inutili… ma in generale si sta eccedendo un po’ in tutto e si sta perdendo il senso delle cose! Questa una mia semplice opinione.»

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Ora, premesso il fatto che stiamo parlando di persone e non di barboncini teneri e morbidi, perciò, seppur si tratti di bambini, definirli “super dolci e speciali” a priori, sempre e comunque, ha perfettamente il sapore dell’abilismo (la discriminazione delle persone con disabilità), generalizzando in base a stereotipi e luoghi comuni intrisi di pietismo e compassione. Ma oltre a questo, sarebbe bastata la prima frase a indicare quanto lavoro ci sia ancora fa fare se addirittura riteniamo esagerata la scelta di includere ulteriori categorie all’interno di momenti quotidiani formativi come quello del gioco per i più piccoli.

C’è poi chi, forse senza accorgersene, dice qualcosa di ancor più pericoloso, se vogliamo:

«Ho sempre giocato con bambole che avevano l’aspetto di un neonato perché mi piaceva identificarmi con una mamma, la Mattel ci guadagna un sacco con questa pubblicità a spese nostre.»

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Stiamo quindi sostenendo che un neonato con sindrome di Down non è un vero neonato? Che la mamma di un bimbo Down è “meno mamma”, ed ha una minore dignità, della madre di chi ha tutti i cromosomi al posto giusto? E infine, tornando ai guadagni: si tratta di lavoro, e il lavoro deve essere pagato, soprattutto se non fa del male ma, anzi, permette come in questo caso un dibattito che possa smuovere, in positivo, l’opinione pubblica sensibilizzandola.

E poi ancora:

«Con queste idee fate sentire ancora più diverse queste persone!! Altro che renderle felici! Hanno solo un cromosoma in più diverso dalla normalità, quindi sono come tutti e vanno trattati, amati vissuti come persone normali. Ma oggi se non trovano la trasgressione su tutto non è bello!»

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A parte che l’uso smodato del termine discriminatorio “normalità”/“normale” fa abbastanza sorridere se pensiamo che a scriverlo è chi pensa proprio di essere inclusivo, ma la vetta di comicità si raggiunge ritenendo “trasgressione” una scelta che, in realtà, dovrebbe essere scontata, quasi banale. Ovvero l’esatto opposto.

«Dawn, nera, bianca, con una gamba sulla sedia a rotelle, coi brufoli, grassa ecc… Ma la bambola per definizione è BAMBOLA serve a giocare a stimolare la fantasia non ad accettare la diversità per questo c’è la educazione la vita la cultura l’esempio la legge…»

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Beh, certo, d’altronde quando mai il gioco è stato un canale di educazione, socializzazione, inclusione, magari tra pari, e magari proprio a scuola? Figuriamoci. (Ovviamente sono sarcastico).

Per fortuna sono state molte le prese di posizione opposte e, tra queste, voglio citarne tre che mi sono arrivate nei messaggi di Instagram. Ad esempio Francesca mi dice: 

«Quando Mattel ha fatto la prima Barbie con vitiligine l’ho comprata. Per la prima volta dopo anni mi sentivo rappresentata. Avevo 26 anni. Il potere della rappresentazione è fortissimo, mi dispiace che la gente proprio non lo capisca.»

Il potere della rappresentanza, appunto. La stessa che chi si oppone a questo modello di Barbie non riesce proprio a comprendere, e che invece mi racconta benissimo Ilenia attraverso un aneddoto riguardante un suo giovane concittadino:

«Proprio ieri ho letto un post sulla pagina FB del nostro paese, di un ragazzo autistico, di come stia vivendo un momento di solitudine in quanto ha lasciato l’università a causa della pandemia e abbia troppo tempo libero e di come non si faccia quasi nulla a livello politico per una inclusione seria e non di facciata, cercava amici con cui passare qualche ora. Tanti commenti gli dicevano di contattare le associazioni a di zona, che lo avrebbero aiutato e lui rispondeva che voleva passare del tempo al di fuori della associazioni di cui fa già parte, cercando di fare amicizia come tutti gli altri. Mi ha colpito tanto e credo che parlare di inclusione in tutti modi, anche con le Barbie, sia un modo di educare i bambini sin da piccoli a non escludere nessuno.»

Ecco perché quella di Mattel è una scelta “politica” ed ecco perché dovrebbero essercene molte di più, per non far sentire sole alcune persone solo perché ritenute divergenti in qualcosa da una società spesso distratta o, peggio, egoista. E chi se ne importa se questo possa arrecare alle aziende un qualche profitto, economico o di immagine, se tutto ciò fa del bene a qualcuno.

Una bambola, e non solo, riesce ad essere un modo bellissimo per combattere la solitudine, come ricorda Claudia:

«Sono nata con una cardiopatia congenita. Ultimamente seguendo varie serie TV in streaming mi sta capitando che in quasi tutte si parli di tetralogia di fallot. E ti posso assicurare che quando se ne parla, soprattutto per sensibilizzare, a me fa piacere e mi sento meno sola.»

Ditemi voi cosa può esserci di sbagliato in tutto questo. Di certo, non per quei bambini che non avranno bisogno di un libretto di istruzioni per comprendere come si deve giocare con la Barbie con sindrome di Down, rapportandocisi esattamente come farebbero con tutte le altre bambole, in modo spontaneo. Proprio come dovrebbe essere sempre.

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